Dalla polvere di Cartagine, rasa al suolo dai Romani, alle "marce della morte" imposte ai nativi americani, il filo rosso che unisce l'intera storia dell'umanità è un tema scomodo e doloroso: la violenza pianificata per eliminare un popolo e impossessarsi del suo territorio è sempre accaduto in passato fin ad oggi.
In questo viaggio nel tempo, esploreremo le pagine più buie della storia, dove il termine genocidio ha preso forma: dalle politiche di sterminio coloniale contro gli Herero e Nama alle atrocità del genocidio armeno, fino all'orrore industrializzato della Shoah.
Non ci fermeremo al passato. Arriveremo fino ai nostri giorni, dove la violenza assume altre forme, come il genocidio culturale in Tibet, con la soppressione della lingua, della religione e persino la violenza sulle donne, che svela una verità scomoda: la brutalità non è un'eco lontana del passato, ma una minaccia costante e tangibile.
Preparati a un percorso che ti farà riflettere e che ti costringerà a guardare la storia da una prospettiva diversa per comprendere ciò che accade oggi.
Impero romano: La distruzione di Cartagine
Dopo aver sconfitto Cartagine nelle prime due Guerre Puniche, Roma continuava a vederla come una minaccia, nonostante il suo potere fosse notevolmente ridotto. La famosa frase "Carthago delenda est" ("Cartagine deve essere distrutta"), pronunciata dal senatore Catone il Vecchio, simboleggia il sentimento di fondo a Roma: non bastava sconfiggere il nemico, bisognava eliminarlo per sempre.
La Terza Guerra Punica (149-146 a.C.) fu la guerra finale. Dopo un assedio di tre anni, le legioni romane entrarono in città. La distruzione fu totale e sistematica. I soldati romani combatterono casa per casa, incendiando ogni cosa. La città fu completamente rasa al suolo.
La maggior parte degli abitanti di Cartagine fu uccisa durante il saccheggio. I circa 50.000 sopravvissuti furono venduti come schiavi. E Per finire, i Romani proibirono ogni futura ricostruzione, "maledicendo" simbolicamente il suolo su cui sorgeva la città per assicurarsi che non rinascesse mai più.
La distruzione di Cartagine non fu un caso isolato, ma l'esempio più estremo di una mentalità romana che considerava l'annientamento una opzione strategica.
Le conquiste di Cesare in Gallia
Durante le sue campagne (58-50 a.C.), Giulio Cesare adottò spesso politiche brutali per sottomettere le tribù locali. Massacri di massa e riduzione in schiavitù di intere popolazioni furono documentati da lui stesso nei Commentarii de bello Gallico. La sua conquista portò alla morte di oltre un milione di persone e alla schiavitù di un altro milione, con l'obiettivo di pacificare e annettere i territori alla Repubblica Romana.
Anche dopo l'instaurazione dell'Impero, l'esercito romano non esitava a radere al suolo città e a sterminare intere popolazioni per soffocare le rivolte. Un esempio fu la distruzione della città di Corinto nel 146 a.C., nello stesso anno di Cartagine, come avvertimento per altre città greche.
In questo periodo gli atti di sterminio non erano visti come un male morale, ma come una terribile necessità strategica per la sopravvivenza e l'espansione dello Stato.
L'epoca coloniale
Periodo cruciale per comprendere i genocidi sistematici legati alla conquista territoriale. In questo periodo, le potenze europee giustificano la violenza e lo sterminio delle popolazioni indigene con ideologie di superiorità razziale ed economiche.
Il genocidio degli Herero e Nama (Africa sud-occidentale)
Questo è spesso citato come il primo genocidio del XX secolo e un chiaro esempio di sterminio per motivi coloniali.
All'inizio del Novecento, l'Impero tedesco controllava l'attuale Namibia. I coloni tedeschi confiscarono le terre e il bestiame delle popolazioni locali, Herero e Nama. Nel 1904, la popolazione Herero si ribellò.
La risposta tedesca fu guidata dal generale Lothar von Trotha, che emise un famigerato "ordine di sterminio" (Vernichtungsbefehl). L'ordine dichiarava che ogni Herero, armato o disarmato, con o senza bestiame, doveva essere ucciso.
Le truppe tedesche spinsero gli Herero nel deserto del Kalahari, avvelenando i pozzi d'acqua e bloccando ogni via di fuga. Le persone morirono di sete e di fame. I sopravvissuti furono internati in campi di concentramento, dove furono usati per esperimenti medici e lavori forzati. Si stima che circa l'80% della popolazione Herero e il 50% di quella Nama morirono.
Nativi americani: un genocidio prolungato
A differenza di un singolo evento, la decimazione delle popolazioni native in Nord America fu un processo lungo e multifattoriale, che molti storici e studiosi definiscono un genocidio.
Pulizia etnica e confisca delle terre: L'espansione degli Stati Uniti verso Ovest era guidata dalla dottrina del "destino manifesto", l'idea che la nazione avesse il diritto divino di espandersi su tutto il continente. Questo portò a politiche di espropriazione delle terre e di rimozione forzata.
Il Trail of Tears (Sentiero delle Lacrime)
Negli anni '30 dell'Ottocento, il governo degli Stati Uniti costrinse decine di migliaia di Cherokee, Muscogee (Creek), Seminole, Chickasaw e Choctaw a marciare per migliaia di chilometri dalle loro terre ancestrali nel sud-est verso l'attuale Oklahoma. Migliaia di persone morirono di fame, malattie e sfinimento.
Eventi come il Massacro di Sand Creek (1864) in Colorado, dove l'esercito americano uccise centinaia di Cheyenne e Arapaho in un accampamento pacifico, o il Massacro di Wounded Knee (1890) contro i Lakota nel Dakota del Sud, furono atti deliberati di sterminio contro non combattenti, inclusi donne e bambini.
Oltre allo sterminio fisico, le politiche coloniali miravano anche a distruggere la cultura e l'identità dei nativi. Il sistema delle scuole residenziali, dove i bambini venivano strappati alle loro famiglie e costretti ad abbandonare lingua e tradizioni, è oggi riconosciuto come una forma di genocidio culturale.
In questo periodo i genocidi erano strettamente legati alla conquista e allo sfruttamento economico, con il razzismo che forniva la giustificazione morale per le atrocità.
Eccoci all'ultima parte, quella che porta il tema dei genocidi fino ai giorni nostri. In questo periodo, la natura dei conflitti cambia: i genocidi sono spesso il risultato di ideologie nazionalistiche estreme, fanatismi etnici o religiosi, anche se la brama di controllo territoriale rimane spesso una motivazione sotterranea o un elemento di contesto.
Arriviamo ai giorni nostri
La Shoah (Olocausto)
Questo è l'esempio più documentato e tristemente noto di genocidio, e dimostra come un'ideologia razzista possa portare allo sterminio sistematico di milioni di persone.
L'ascesa del regime nazista in Germania si basava su un'ideologia di superiorità della "razza ariana" e di odio profondo verso ebrei, rom e altre minoranze. Questa ideologia era strettamente legata al concetto di Lebensraum (spazio vitale), che prevedeva la conquista di vasti territori nell'Europa orientale e l'eliminazione o lo spostamento delle popolazioni locali per far posto ai coloni tedeschi.
A partire dal 1941, la "soluzione finale" divenne una macchina di morte industriale, con la creazione di campi di sterminio come Auschwitz-Birkenau, Treblinka e Sobibór. Milioni di persone furono deportate, umiliate e uccise in camere a gas.
Si stima che circa sei milioni di ebrei furono uccisi, insieme a centinaia di migliaia di rom, omosessuali, disabili e oppositori politici.
Il genocidio del Ruanda: l'orrore in 100 giorni
Questo evento dimostra che i genocidi non sono confinati a regimi totalitari e guerre mondiali, ma possono scoppiare in modo brutale e fulmineo anche in tempi più recenti.
Il genocidio del 1994 scaturì dalle tensioni storiche tra l'etnia maggioritaria Hutu e la minoranza Tutsi. Queste tensioni furono esasperate dalla politica coloniale belga e dalle successive politiche nazionaliste dei governi Hutu.
Nell'arco di soli 100 giorni, a partire dall'aprile 1994, milizie estremiste Hutu (Interahamwe) e la popolazione civile, incitata dai media governativi, massacrarono circa 800.000 Tutsi e Hutu moderati. Le uccisioni furono perpetrate principalmente con machete e armi rudimentali, in un'esplosione di violenza di una brutalità inaudita.
Le forze di pace internazionali presenti in Ruanda furono ritirate, lasciando le vittime senza protezione e rendendo questo genocidio un simbolo della negligenza della comunità globale.
I giorni nostri
Anche oggi, il mondo assiste a crisi in cui l'accusa di genocidio o pulizia etnica è al centro del dibattito internazionale.
Il Darfur (Sudan): A partire dai primi anni 2000, le milizie Janjaweed sostenute dal governo sudanese hanno condotto una campagna di pulizia etnica contro le popolazioni non arabe, con centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati.
I Rohingya (Myanmar): Dal 2017, l'esercito del Myanmar ha lanciato una violenta campagna contro la minoranza musulmana dei Rohingya, con accuse documentate di massacri, stupri e incendi di villaggi. L'ONU e altre organizzazioni hanno usato il termine "pulizia etnica" e, in alcuni casi, "genocidio".
L'aggiunta del genocidio armeno è fondamentale per completare il quadro dei genocidi del XX secolo. È un evento di enorme importanza storica.
Il genocidio armeno (1915-1923)
Questo evento è spesso definito il primo genocidio moderno per via della sua natura sistematica e organizzata dallo stato.
Gli armeni vivevano da secoli nell'Impero Ottomano, principalmente in Anatolia orientale. Erano una minoranza cristiana che, sebbene tollerata, subiva spesso discriminazioni. Con la Prima Guerra Mondiale e il declino dell'Impero Ottomano, i nazionalisti turchi al potere iniziarono a temere che gli armeni potessero allearsi con la Russia (nemica dell'Impero) e costituire una minaccia interna. Il governo dei "Giovani Turchi" iniziò a progettare una politica di omogeneizzazione etnica per creare una nazione turca pura.
Il 24 aprile 1915 è la data simbolo dell'inizio del genocidio. In quella notte, centinaia di intellettuali, scrittori, politici e leader della comunità armena furono arrestati a Costantinopoli e poi giustiziati. Questo servì a decapitare la leadership armena e impedire una resistenza organizzata.
Dopo l'arresto dei leader, il governo avviò un piano di deportazione di massa. Gli armeni furono costretti a lasciare le loro case e a intraprendere marce forzate attraverso il deserto della Siria. Durante queste marce, uomini, donne e bambini morivano di fame, sete ed estenuanti fatiche. Molti furono uccisi lungo il percorso da scorte militari e milizie irregolari.
Le stime variano, ma la maggior parte degli storici e delle istituzioni internazionali concorda sul fatto che furono uccisi tra 1 milione e 1,5 milioni di armeni.
A tutt'oggi, la Turchia nega che questi eventi costituiscano un genocidio, pur ammettendo la morte di molti armeni durante il conflitto. Al contrario, oltre 30 paesi (tra cui l'Italia, gli Stati Uniti, la Francia e la Germania) hanno formalmente riconosciuto il genocidio armeno.
La questione del riconoscimento internazionale è ancora molto dibattuta e un punto di frizione nelle relazioni diplomatiche, rendendo questo evento non solo un fatto storico, ma un argomento di attualità.
E infine ci spostiamo in Oriente in Tibet
Le politiche cinesi mirano a un'assimilazione forzata che minaccia la sopravvivenza della cultura, della religione e dell'identità tibetana.
Dopo l'invasione/annessione del 1950, la Cina ha progressivamente intensificato il suo controllo sul Tibet. La fuga del Dalai Lama nel 1959 e la conseguente repressione hanno segnato l'inizio di un lungo periodo di repressione politica, religiosa e culturale.
Il governo cinese adotta diverse strategie che, secondo i critici, mirano a sradicare la cultura tibetana:
I monaci e i fedeli tibetani sono sotto stretta sorveglianza. Il governo ha imposto il controllo sui monasteri, limitato il numero dei monaci e persino tentato di nominare i propri abati, arrivando a screditare e a demonizzare la figura del Dalai Lama.
L'uso della lingua tibetana nelle scuole e nella sfera pubblica è sempre più limitato a favore del cinese mandarino. Questo ha lo scopo di indebolire il legame dei giovani con le proprie tradizioni e di integrarli nella cultura maggioritaria cinese.
Una delle strategie più controverse è l'insediamento massiccio di cinesi di etnia Han in Tibet e nelle aree limitrofe. I critici sostengono che questo sia un tentativo di diluire la popolazione tibetana e di rendere la cultura Han dominante nella loro stessa terra.
I tibetani che si oppongono a queste politiche vengono regolarmente arrestati e perseguitati. La regione è soggetta a una sorveglianza pervasiva, con telecamere, posti di blocco e una forte presenza militare per prevenire qualsiasi forma di dissenso.
Il governo cinese nega fermamente queste accuse. Sostiene che le sue politiche in Tibet mirano a modernizzare la regione, a migliorare le infrastrutture, a combattere la povertà e a proteggerla da influenze straniere e separatiste. La Cina considera il Tibet una parte inalienabile del suo territorio e considera il Dalai Lama un pericoloso separatista.
La questione tibetana rappresenta un caso emblematico di come un potere centrale possa attuare una strategia sistematica per eliminare fisicamente un popolo, e la sua identità, le sue tradizioni e il suo legame con la propria terra. Questo offre un'importante sfumatura al concetto di genocidio, allargando il campo di applicazione dal fisico al culturale.
brutale repressione della rivolta del 1959: La prima grande rivolta dei tibetani contro l'occupazione cinese fu soffocata con estrema violenza dall'Esercito Popolare di Liberazione. Si stima che decine di migliaia di tibetani, inclusi monaci e civili, furono uccisi in combattimento e nelle successive rappresaglie. Questo evento segnò l'inizio della diaspora e della repressione sistematica. Nel corso degli anni, ci sono state diverse ondate di proteste in Tibet, in particolare negli anni '80 e più recentemente nel 2008. Queste manifestazioni, spesso pacifiche, sono state represse con la forza dalle forze di sicurezza cinesi, con un bilancio di decine o centinaia di morti, arresti arbitrari e sparizioni forzate.
Un fenomeno tragico e unico della resistenza tibetana è quello delle auto-immolazioni. A partire dal 2009, oltre 150 tibetani, per lo più monaci, monache e giovani, si sono dati fuoco come forma estrema di protesta contro l'occupazione e la repressione religiosa. Questi atti disperati di resistenza pacifica sottolineano la gravità della situazione e il costo in vite umane della repressione cinese.
Le organizzazioni per i diritti umani documentano regolarmente casi di tibetani che muoiono in carcere a causa di maltrattamenti e torture. Molti attivisti e dissidenti politici scompaiono o vengono arrestati con accuse pretestuose.
Questo aspetto dimostra che la strategia cinese va oltre la semplice "eliminazione culturale" come alcuni vogliono farci credere: include anche una componente di violenza di Stato e repressione fisica che ha un costo altissimo per il popolo tibetano.
Numerosi rapporti di organizzazioni per i diritti umani, come Amnesty International e il Parlamento Europeo, denunciano da anni l'uso di politiche di controllo delle nascite coercive contro le donne tibetane.
Molte testimonianze, raccolte da rifugiate tibetane, raccontano di donne costrette a sottoporsi a sterilizzazioni e aborti, a volte anche in stato di gravidanza avanzata. Queste pratiche, sebbene la Cina le neghi ufficialmente, sono state documentate in diverse regioni del Tibet.
Le autorità cinesi impongono limiti severi al numero di figli che le coppie tibetane possono avere (spesso uno o due, a seconda delle zone). Le famiglie che non rispettano queste regole vengono multate pesantemente, perdono benefici statali e, in alcuni casi, i loro figli non possono accedere all'istruzione. Questo crea un forte incentivo alla conformità, che di fatto rende le politiche di controllo delle nascite non volontarie.
Le critiche sostengono che queste politiche non siano semplicemente parte di un programma generale di controllo della popolazione, ma facciano parte di una strategia più ampia per minacciare l'esistenza del popolo tibetano come gruppo distinto. Limitando la crescita della popolazione e incoraggiando la migrazione di cinesi Han, si cerca di diluire e sopprimere l'identità culturale e l'autonomia tibetana.
Questo tipo di repressione, che colpisce direttamente la capacità di una popolazione di riprodursi, rappresenta un aspetto cruciale del "genocidio culturale" di cui abbiamo parlato. Le Nazioni Unite, nella loro definizione di genocidio, includono esplicitamente le misure "intese a impedire nascite all'interno di un gruppo" come uno degli atti punibili.
Eppure sono cose che succedono ancora oggi
Perché è importante non dimenticare
Arrivati alla fine di questo viaggio attraverso i secoli, emerge un filo conduttore doloroso e innegabile: il genocidio non è un errore della storia, ma uno strumento che si ripete. Dalla spietata logica della conquista romana che annientò Cartagine, alla cieca ideologia razzista che ha alimentato l'Olocausto, fino alle forme più insidiose e "culturali" di oppressione che vediamo oggi in Tibet, e in altre parti del mondo mai menzionate il modello è sempre lo stesso.
Queste storie ci insegnano che il genocidio non nasce all'improvviso, ma è il culmine di decisioni politiche, propaganda che disumanizza un intero popolo e, spesso, del silenzio di chi avrebbe potuto agire. Dai nativi americani agli armeni, dagli Herero ai ruandesi non è solo un atto di giustizia, ma una responsabilità. È il nostro dovere riconoscere i segnali d'allarme, sfidare i racconti di odio e vigilare affinché queste pagine di orrore non vengano mai più riscritte. Perché ignorare il passato non ci rende liberi, ma ci rende complici del prossimo capitolo che non vorremmo mai leggere.
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